Meraviglia delle meraviglie
2011 Donnalucata palazzo mormino

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giovanni blanco

unite

Francesco Lentini #2 (dittico), 2010, olio su tela di lino, cm 100×70

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Francesco Lentini#1, 2010, olio su tela di cotone, cm 200×95

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Francesco Lentini #4, 2010, olio su tela di lino, cm 70×50

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Francesco Lentini #5, 2010, olio su tela di cotone, cm 60×50

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F. L., 2010-2011, olio su tela di cotone, cm 90×70

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Francesco Lentini #6, 2010, acrilico su cartone, cm 90×49

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Senza titolo (trittico), 2010, olio su tavola, cm 40×30

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Due studi per Francesco Lentini #1, 2009-10

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Ritratto di mia madre, 2010, tempera su tela di cotone, cm 24,5×20,5

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Piccolo ritratto di mia madre”, 2010-2011, olio e acrilico su tela, lenzuolo, cm 30×20

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Francesco Lentini #7, 2010, olio su zinco applicato su tavola, cm 88×58

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Mia madre Rosa, 2010, tecnica mista su carta, cm 34,5×28

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Francesco Lentini: il dolce canto prima della notte.

 

“La vita sa confondere le sue tracce, e tutto, del passato, può diventare materia di sogno, argomento di leggenda.”

Giorgio Bassani

Siracusa, 6 gennaio 2001, ore 18 circa.
Se quel giorno il treno Freccia del Sud non avesse avuto un problema tecnico, non avrei mai acquistato dall’edicolante della ferrovia la rivista “I siracusani”. Tra i tanti articoli incentrati sulla cultura e sulla storia del territorio siracusano, ce n’era uno che riguardava l’italo-americano Francesco (Frank) Lentini: l’uomo con tre gambe. L’articolo descriveva il personaggio come il più grande fenomeno da baraccone di tutti i tempi: nato in Sicilia nel 1889, a Rosolini, da un’umile famiglia di contadini[1]; altre informazioni di tipo biografico descrivevano il contesto nel quale Francesco s’era formato ed esibito. Ricordo che, a conclusione del testo, il giornalista aveva inserito ben tre punti di esclamazione, come ad evidenziare quel senso leggero e ironico tipico di certa scrittura scanzonata, dando all’insieme un taglio di finta e superficiale distanza; al contempo, questi segni, mi sembrava offrissero un’inedita forza evocativa e uno slancio diverso alla qualità del contenuto.
In quelle ore concitate di fine pomeriggio la luce del sole aveva lasciato da poco lo spazio ai toni di mistero della sera, e quei minuti d’attesa, provvisori e sospesi come lanterne che illuminano strade vuote, provocarono in me molta tensione: uno stato d’animo comprensibile solo da chi prova ansia nell’allontanarsi dalla propria terra e dai propri affetti. E’ noto che certe sensazioni si vivono unicamente sulla propria pelle, specialmente quando si è in balia di cose che non dipendono da noi; in tal senso, si possono immaginare e capire lo spirito e la delusione con i quali si affronta spesso questo genere di viaggio.
Allora come oggi, nel piazzale del primo binario, era situata l’edicola dei giornali, segnalata al suo ingresso da alcune ceste in vimini, dove vi erano libri e cd musicali ammucchiati, etichettati con prezzi d’offerta: unica via d’uscita possibile dall’impasse temporale, tipica delle stazioni, delle sale d’attesa, e di tutti quegli spazi divenuti, per dirla con Marc Augé, “nonluoghi”.
La lettura di quell’articolo trovò un coinvolgimento più forte quando lo sguardo cadde sull’unica foto pubblicata di Lentini -­le foto hanno sempre una forza d’urto visiva, perché declamano l’incontrovertibile senso del tempo e dello spazio che si arresta-, tanto che mi provocò una sorta di dejà vu, un cortocircuito fortissimo, tale da riportarmi indietro negli anni con la memoria.
Tutto risaliva ai miei giorni d’infanzia, a Rosolini, a quei primi e lunghi pomeriggi d’estate, a quando l’irrequietudine si alternava ai silenzi che sentivo dentro la mia camera, rotti solo dal rumore di qualche auto o camion in transito. Il percepire delle ore calde del giorno e il correre arabescato della luce, sottilmente filtrata da una tenda bianca lavorata a fiori e foglie, rappresentava poi il motivo di stupore per le ombre che tingevano di decoro impalpabile il muro, con quel senso fluido dell’apparire simile ad un teatro virtuale che precedeva il sonno, e che dal mio letto andavo come a ridisegnare puntando il dito, inscenando prospettive animate di speranza. Devo ammettere che non sempre questa era l’atmosfera del dopopranzo, quasi sempre vicina, per logica e sensazione, al balzare inesorabile del mio umore. Ecco che in quei momenti mia madre, dopo aver finito di lavare accuratamente le stoviglie e messo a posto tutta l’utensileria necessaria per fare i suoi piatti semplici, ma prelibati, si calava nella parte di narratrice per farmi addormentare (talvolta questo precedeva i pasti, al solo scopo di farmi mangiare), raccontandomi storie e leggende dal sapore tutto magico che, con successo, mi catturavano e costruivano nell’immaginario fisionomie e scenari fiabeschi. Non molto più tardi capii le ragioni di questa sua strategia, così da sembrarmi evidenti e naturali le finalità educative, sempre molto precise, che mi evitavano, in primis, di farmi andare in strada da solo, specialmente nelle ore arroventate dallo scirocco. Si sa bene come nei luoghi all’aperto un certo grado di libertà conquistata dai figli aiuti a farli svincolare dalle rigide regole dei genitori, così da lasciare loro solo risposte mute…
La storia più avvincente e più incredibile, per slancio visionario e suggestione, era quella per l’appunto su Francesco Lentini, protagonista riconosciuto nell’immaginario collettivo del paese: veniva descritto come uomo antico, con anche una sottile aura mitologica, straordinariamente dotato di tre gambe. Una figura dal volto vago, quasi non l’avesse, che si aggirava con un grande sacco per le vie del paese in cerca di bambini disubbidienti. Mi ricordo che con parole semplici mia madre costruiva tracciati di storia inediti, impreziosendo la trama di spunti e dettagli, come succede sempre a chi lascia aperte le porte della fantasia, per poi sfumare la storia in una nenia dolcemente intonata, non appena vedeva calare lentamente le mie palpebre. Altre volte, ascoltandola, la sensazione era quella di paura, mista al piacere della curiosità, irrefrenabile a tal punto da trovarmi a sbirciare tra le fessure dell’avvolgibile semichiusa, aspettando da un momento all’altro l’imminente incontro con il “tripode vivente”: durava molto poco, perché mi spingevo ad ubbidire con solerzia e senza piagnistei. L’aspetto che maggiormente mi inquietava, però, non era che quest’uomo fosse dotato di tre gambe -nel racconto giustificate dal fatto che egli avrebbe così potuto deambulare più facilmente, considerando anche il peso del sacco ricolmo di “mocciosetti dispettosi!”-, ma la paura che, come in altre storie, si pensi solo a quella dell’Uomo nero o dell’Orco della foresta, un bambino potesse provare una volta portato via da tutto, privato così inevitabilmente dell’affetto dei propri genitori, dei propri compagni e, non ultimi, dei tanti giochi accumulati durante i giorni felici di festa.
Quell’articolo scatenò inaspettati brividi in me, un trasalire di emozioni ed una certa euforia ineffabili, che tuttavia mi spinsero a contattare al telefono mia madre. Ero certo che, dopo ripetuti trilli, sarebbe stata proprio lei a rispondermi, considerando la quantità di tempo che trascorreva tra le mura di casa, affaccendata come sempre nei suoi riti quotidiani. La conversazione, dapprima accelerata, ebbe successivamente qualche pausa, fino a quando un silenzio di riflessione, vibrante come un vento che scuote le foglie, mi parve del tutto estraneo: forse, a conoscenza del fatto, veniva scossa dalla stessa sensazione che pochi minuti prima aveva destato in me uno shock di stupore? Spesso rifletto sul come a volte ci capiti che il constatare le cose col proprio cuore e con la propria intelligenza possa far rompere le certezze cristallizzate, fuori dal tempo dei pensieri ordinari.
Per mia madre, e devo dire per la stragrande maggioranza dei rosolinesi, allora come adesso, Francesco Lentini era semplicemente una leggenda, un’invenzione letteraria, un tabù, che si articolava nella forma del racconto popolare, frutto di una eredità culturale che passava di generazione in generazione. Di questa storia conosciamo diverse versioni, fatte di varianti e sfumature impercettibili, che potrebbero costituire l’impalcatura di un romanzo labirintico capace di parlarci della sua vita come si trattasse di un filo che va intrecciandosi in una matassa estranea alla propria, attorno al gomitolo del mistero, in una più difficile e sotterranea verità da sbrogliare.
Di recente, leggendo alcune ricerche fatte sulla sua vita, avvalorate da Pietro e Giuseppe Lentini, pronipoti di Francesco, sono venuto a conoscenza di molte altre informazioni. Una di queste è che egli visse una brevissima parentesi della sua giovinezza a Malta, nel piccolo villaggio di Bormla, sotto le cure del professor Ruggiero Busuttil, al quale i genitori del ragazzino si rivolsero nella speranza di una possibile guarigione. Un’altra riguarda un episodio quanto mai singolare, circa l’ultimo suo presunto ritorno a Rosolini. Mi si dice che egli, già maggiorenne, durante il periodo della festa di Carnevale era andato a salutare la propria famiglia. Era il 1908, e per quell’occasione pensò bene di evitare qualsiasi tipo di  imbarazzo verso la sua gente. Ebbe una brillante idea, e fu quella di far travestire alcuni dei suoi pochi amici di infanzia con dei costumi fatti confezionare con una gamba in più: una maschera improvvisata, geniale ed efficace espediente di “difesa” dal giudizio dei suoi compaesani, come in un gioco di finzione teatrale, che ci lascia intuire la spiccata predisposizione del giovane rosolinese verso la strada dello spettacolo. Sento forte la sensibilità e l’intelligenza in questo straordinario personaggio che, con un gesto così simbolico, ci fa anticipare quello che sarà tutto il risvolto del suo autentico percorso di vita.
Per avere un quadro più completo di questa storia bisogna considerare la riservatezza e la delicatezza dell’argomento, specie in una realtà chiusa e arcaica di inizio Novecento come poteva essere quella di un qualsiasi paese meridionale. Nel contestualizzare le dinamiche di relazioni sociali e i numerosi pregiudizi ai quali il giovane Lentini dovette far fronte, immaginiamo molto bene la sua complicata esistenza, ridotta inizialmente a ritiri forzati e a difficili apparizioni sulla scena di quella realtà. Chiusura, quindi, qualche volta paura profuse in viatici modelli educativi dai valori granitici, paradossali e tipici di quest’isola, che tuttora fungono da imprescindibili coordinate culturali, chiavi di lettura, per comprendere bene la visione storica del popolo siciliano.
Rifletto così sulle credenze popolari che dettarono la vita di quei giorni, abbeverate, da una parte, dall’importanza data al senso delle cose materiali, e dall’altra dalla concezione simbolica della natura, letta e interpretata attraverso il filtro critico imposto dalla chiesa. Non dimentichiamo che a “farcire” il tutto c’era l’altissimo tasso di ignoranza e l’analfabetismo diffusi, così da indicare in tutte quelle misteriose stranezze del Creato la presenza negativa del male. Personalmente sono convinto, per una storia di rimandi espressivi alla quale faccio fede, che ci sia un legame stretto, simbiotico, tra gli abitanti di un luogo e il luogo stesso. A tal proposito penso ai volti dei miei compaesani, al mio volto, e ai toni di grigio e di bianco delle forme della “timpa” calcarea dell’altipiano ibleo, dove si arroccano ancora alcune delle prime abitazioni del paese, affacciate sulla strada statale che porta fino al mare. C’è una fortissima assonanza tra le due parti, un legame estetico sottile che mi induce a proiettare lo sguardo verso quella sfera della bellezza presente nelle cose, quasi si trattasse dell’opera prima di una mano sofisticata che, nel tracciato di un disegno primordiale, è stata capace di allineare: natura e valori umani, sentimenti e forme geologiche, riconducibili ad ossimori pienamente compiuti.
Scorrendo le pagine di quell’articolo, quasi a conclusione del testo, lessi che Francesco, su consiglio del medico maltese, decise di andare in America, trovandosi a fare la scelta fondamentale per il suo futuro: far carriera come freak, come fenomeno da baraccone, riscuotendo successo e acclamazione inimmaginabili. Fu la sua fortuna, la fama che nessun uomo di allora poteva immaginare e che oggi, a distanza di tempo, ci sembra di considerare come un grande insegnamento.                                    
Questo breve scritto vuole essere un momento di riflessione sulla memoria sentimentale di una parte della mia infanzia, rafforzata dalle numerose associazioni visive e spirituali presenti nella nostra cultura e che, per certi versi, non sembri una esagerazione, ci avvicinano ad un sentire lontano, a tratti orientale: si pensi al simbolo araldico che rappresenta la Sicilia, la Trinacria, nel quale le tre gambe incorniciano la testa di Gorgone, o al significato esoterico al quale il numero tre ci rimanda.
Trovo che in questa successione di aneddoti, alternata da lucori e polveri del tempo, e finanche modellata da un’eco lontana e millenaria, sia chiara l’idea del duplice taglio di finzione e di verità emersa, nella quale ho subito visto proiettato il valore onirico dell’arte. E’ in questo segmento poetico che vedo nascere tutte quelle idee sensibili, traslate dall’apparenza delle cose al cuore pulsante dell’esistenza, dove qualche volta il sentimento della diversità, sofferente e irredimibile, diventa viatico necessario per alcune scoperte, quasi fosse il prezzo da pagare per chi si abbandona al senso ultimo della Bellezza.
Nella scansione temporale di questa mia intensa traversata emozionale, ho immaginato una storia dipinta, una galleria di segni e presenze, con al centro la figura di mia madre e quella non più di finzione di Francesco Lentini.

 

 

 


[1] Da una recente lettura fatta al registro di battesimo della Parrocchia di S.Giuseppe, risulta essere nato due anni prima della data pubblicata.