La pratica del ricordo è come un canto
Giovanni Blanco – Federico Lupo
2011 Bologna bt’f gallery
Premessa per una mostra
La finta biblioteca dipinta dal Crespi nelle prime luci delle tre decadi del Settecento (oggi conservata al museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna), dallo smalto bruno e dai toni terrosi, mi indica un sentiero poetico che sfocia fino all’opera di Morandi.
Mi capita spesso di sentire, nella rivoluzione di alcuni pensieri sottili, simili ad intricate geometrie, il tempo della natura proiettarsi sui valori e sui modelli etico-estetici di alcune opere: inseguite da un abbaglio di luce radente, silenziosa, sono capaci di trasformare in un teatro sentimentale la stessa pelle della storia. E’ per me naturale intrecciare queste parole al corpo molle del mio archivio esperienziale: il diario intimo del vissuto che si correda di volta in volta di affetti, delle molte scoperte e coincidenze espressive delle cose dell’arte e del mondo.
Nel corso di questi ultimi anni mi sono trovato a far decantare il lascito di oggetti e schegge figurali acquisiti nella rotazione orizzontale delle ore e dei giorni: gusci di lumache, resti di uno scorpione, piccoli fossili, matrici calcografiche trovate da un rigattiere a Manhattan, acchiappasogni tribali, appunti graffiati in punta d’argento ecc, realizzando una mia piccola “biblioteca interiore”, fatta di tassonomie affettive, legate dal fil rouge della stessa madre: la memoria. L’ho subito intesa come una geografia altra, gemella ad altre strade ultimamente battute, che mi ha suggerito un primo lavoro pittorico articolato nel trittico che ho pensato per la mostra “La pratica del ricordo è come un canto”.
Una bacheca di legno con vetri scorrevoli, vera e propria messa in scena plastica (speculazione di segni indigeni), prevista al centro di un trittico, sarà presente in mostra, affiancata ad altri elementi visivi: due scaffali nudi dipinti ad olio su tela e inchiostri calcografici su carta, i quali definiranno la “tabula picta”, con l’intento di stabilire un rapporto ossimorico tra le parti.
A compendio di quest’opera, metterò un ritratto dedicato a Guglielmo, “‘Ugghiermu” nell’idioma siciliano, figura singolare ai margini di una Rosolini dove egli visse. Era solito vederlo per le vie del paese accompagnato sempre dalle sue collane e dai suoi gingilli ciondolanti, riducendo gesti e azioni con quel suo passo buffo e claudicante. Mi raccontano che egli amasse raccattare piccoli oggetti e cianfrusaglie di poco valore, trovati in giro o avuti in cambio dalla gente del paese, al fine di poterle condividere a casa con l’unica sorella di sangue che aveva: immagino quell’umile abitazione colma d’ogni cosa, impolverata da tanta miseria. Queste sono alcune delle premesse poetiche che mi sono parse cogenti rispetto alle vicende umane qui sinteticamente riportate, assieme al senso che vado cercando nell’arte, consapevole di parlare una lingua minore che so appartenere alla bellezza della memoria.