La fucina e lo splendore
Giovanni Blanco – Domenico Grenci
2019 Bologna museo davia bargellini

Sala I

Senza titolo, olio su tela, cm 17,1×23, tenda in raso, sella di cavallo, 2018
(a sinistra) Domenico Grenci, Barbagianni, acrilico ed inchiostri su lucidi, lenti, lampada led, struttura in legno, tela in cotone, cm 27x27x260, 2018

Senza titolo, olio su tela, cm 17,1×23, 2018

Sala II

F.L. acrilico su cartoncino montato su telaio in legno cm 29,7×21, 2013

Sala III

I pensieri diventano storie andate, olio su tavola, diametro cm 39, corona di fiori e foglie in ferro, 2018

Sala IV

Ritratto di Giovanni Blanco (destra) e di Domenico Grenci (sinistra), due stampe 3D, acrilico, cm 7x12x9; cm 12x6x7, su basi di plastilina e latta, 2019

Sala VI

 

Senza tilolo, olio su tela, cm 112×150, 2018

Sala VII

Sospeso nero, inchiostri tipografci su cartoncino (24 elementi recto-verso), cm 280×170, 2018

Museo Davia Bargellini, Teatrino bolognese con marionette veneziane

 

Il dio delle piccole cose
Pietro Gaglianò

Nel 1972, nel celebre saggio Other Criteria, Leo Steinberg scriveva che “qualunque sia ogni suo altro contenuto, tutta l’arte ha per oggetto se stessa”, indicando la centralità di un atteggiamento consapevolmente autocritico che, a suo parere, caratterizza “ogni arte importante a partire almeno dal Trecento”1. Potremmo dire che a partire dalla stessa epoca (e con ogni probabilità anche prima, nell’universo mediterraneo e nel mondo classico) questo esercizio di ricerca, che riguarda la forma quanto il contenuto, si confronta con il proprio tempo riflettendo insistentemente sul passato. Che le intenzioni siano di praticare una rottura o di dichiarare un omaggio, o ancora, più correntemente, di riconoscere la sostanziale continuità dello sguardo del genere umano che si posa sulla realtà, il rapporto con il passato produce una contrazione della linearità del tempo e lo rende relativo in una chiave che, in un apparente paradosso, è da sempre contemporanea.
È questo un pensiero chiave nella ricerca di Giovanni Blanco e Domenico Grenci, e costituisce un utile punto di partenza per la lettura del progetto La fucina e lo splendore, nato dall’incontro tra i due artisti e dal loro inoltrarsi nella storia e nello spazio del museo Davia Bargellini a Bologna. Al cuore di tutto questo c’è un ragionamento attorno al museo percepito come un sofisticato dispositivo che manipola il tempo, lo scardina dal suo piatto riferirsi alle categorie del passato, del presente o del futuro, lo reimmette in circolo e coniuga la storia in un moto ondivago e imprevedibile. In ogni raccolta o esposizione permanente, il processo di musealizzazione innesca nei mirabilia esposti una moltiplicazione semantica che si esprime anche attraverso il tempo. Una tabacchiera ottocentesca, una tavoletta sacra per la devozione privata, una saliera d’argento e un idolo ligneo parlano un linguaggio che ci raggiunge arricchito e trasfigurato dal mutare dei costumi, dalla deformazione ottica della memoria, dalle sovrastrutture culturali che si pongono tra noi e il mondo che è stato contemporaneo alla loro genesi. È un tempo terzo, dunque, quello scelto da Blanco e Grenci per entrare nel museo: un tempo che combina e scambia tra loro i fattori che di consueto usiamo per misurarlo. Un tempo che si sofferma sulle piccole cose, sui dettagli, sulle opere minori, sugli sfondi, sulle figure alle spalle dei protagonisti della storia, e che affina la percezione rispetto a tutto ciò che è minimo.
Si possono scegliere due opere per chiarire le intenzioni di questo approccio. La prima è un dipinto di Giovanni Blanco e raffigura un cavallo posto di profilo, un animale superbo anche nella minute proporzioni di questa tela. Il cavallo, anzi, la sua immagine trascina nella sua vitalità anche l’oggetto opaco che lo ha ispirato e vicino al quale viene esposto: una antica sella in cuoio, uno strumento di lavoro priva di speciali pregi formali, un relitto del tempo. L’altra opera è di Domenico Grenci: una monumentale tela raffigurante un sipario rosso che percorre l’intera altezza della stanza e cela l’accesso a una finestra; questo lavoro si riflette in una tavola quattrocentesca, una Madonna con Bambino di Antonio Vivarini, nella stessa sala, dove un analogo drappo purpureo, arcisimbolo della regalità e del martirio, incornicia la sacra maternità. A fianco della tela Grenci ha posto un piccolissimo quadro con dei garofani, anche questi rossi, che completa ed estende la vita di questo dittico.
Queste opere, e tutte le altre che accadono – vorrei sottolineare, usando questo verbo, una vitalità inaspettata del lavoro, una sua certa pressione dinamica che le mostre tradizionali, di solito, non hanno – queste opere si situano in un’area liminale, sulla soglia tra la solenne permanenza dell’esposizione storica e la transitività del mondo esterno. Gli artisti evocano l’esistenza di un museo sonnambulo e fantasmatico dove nottetempo hanno luogo scambi e traslazioni, dove apparizioni incaute possono lasciare tracce del loro passaggio, lanciando interrogativi per lo sguardo degli osservatori diurni (come il piccolo ritratto di una ninfa, o di una diva del cinema muto, in una cornice ferrea di rose e racemi, dimenticato sul pavimento, e come i profili spettrali che appaiono su tele e su scatole misteriose). Si può immaginare una doppia vita che trascorre nelle stanze del museo: un versante si lascia consolare dalle cose rischiarate da un faretto, definite da una didascalia e appese per sempre a un chiodo, l’altro invece rivolge l’attenzione a tutto ciò che non è esplicito e che si esprime nell’intervallo tra le cose ammissibili.
Similmente, l’intervento all’interno del Davia Bargellini si articola su due piani: il primo è la struttura stessa del museo, l’architettura che lo ospita, le sue raccolte, la nascita della collezione e la sua istituzione. Qui Blanco e Grenci hanno scelto di intrecciare con le opere e i reperti esposti un rapporto dialogico, rispettoso della storia depositata sulla pelle delle cose e sui legami che le cose hanno intrecciato tra loro e con le proprie cornici.
L’altra dimensione con la quale si sono confrontati i due artisti è l’ontologia stessa del museo, spazio elastico di riunione di oggetti e conservazione, recinto sacro alle muse (quelle che dal passato classico sovrintendono alle arti e alla storia o quelle più recenti dell’industria, della scienza e delle arti applicate). Nel museo – inteso quale costruzione culturale di marca europea – così come negli archivi e nelle collezioni private, ogni elemento attraversa una metamorfosi assumendo un nuovo significato in forza degli altri oggetti con i quali è posto in relazione. La sua natura originaria di opera, di documento, di manufatto, viene ridotta nella decontestualizzazione dell’esposizione e, al tempo stesso, assiste alla proliferazione del proprio senso nel nuovo spazio che abita, al fianco di altre opere, documenti o manufatti, con i quali rimarrebbe, altrimenti, del tutto irrelata. Tra i sensi coinvolti in questa esperienza che il visitatore ha del museo, domina la vista e si instaura così una parentela diretta con il teatro, la cui etimologia risale al verbo greco ‘theàomai’, che vuol dire ‘guardare’, ‘essere spettatore’, definendo il teatro come il luogo della visione. Su questo piano Blanco e Grenci hanno enfatizzato il carattere scenografico del museo, particolarmente originale in una collezione composita come quella del Davia Bargellini, e hanno messo in opera alcuni apparati scenici che del teatro, soprattutto di un certo teatro fatto di macchinerie semplici e magia arcana, riprendono a volte il lessico e le dinamiche, a volte anche i congegni: sipari, giochi luminosi, e inediti deus ex-machina. Accade così per la piccola effigie del cavallo che Blanco ha posto sullo sfondo di una quinta colorata e accade con la figura evanescente di un barbagianni che Grenci proietta su una tela. Il teatro è ancora in primo piano nel monotipo, ancora di Blanco, che raffigura una maschera veneziana a cavallo di una scimmia, in dialogo con uno dei pezzi più preziosi della raccolta bolognese, proprio un teatrino del Settecento il cui cielo è solcato dai due personaggi ai quali si ispira il lavoro. E viene richiamato nella scatola in legno su cui Grenci ha applicato cornici, stoffe e riproduzioni di opere conservate nel museo, e che cela al suo interno, visibile attraverso un foro, un’immagine mitologica di eroe (la scultura dell’Ercole Nemeo che si trova nel giardino, inaccessibile, del palazzo).
Riaffiora costante, in tutti i lavori, il richiamo di uno stato ambiguo dell’esistenza, un mondo parallelo di fantasmi e di immagini osservate attraverso uno specchio, come se Blanco e Grenci avessero assecondato le atmosfere misteriose e un po’ cupe del museo. Ma l’ombra, l’apparizione alla quale i due artisti si riferiscono sempre è la pittura. L’intero progetto prende forma come un ragionamento sulla pittura, una amplissima e a tratti romantica divagazione sull’esperienza dello sguardo e sulla fruizione dell’opera. La pittura, sovrana tra i linguaggi dell’arte, percorre ogni lavoro e, parafrasando ancora Steinberg, dichiara ancora una volta di avere per oggetto se stessa.

1 Leo Steinberg, Other Criteria. Confrontation with Twentieth-Century Art, Oxford University City Press, Londra-Oxford-New York, 1972.