I fiori di Bommacchia
Giovanni Blanco – Carmelo Candiano
2021 Scicli circolo culturale vitaliano brancati

Ritratto di Carmelo, tecnica mista su carta, cm 29,7×21, 2021

Veduta dell’installazione

Senza titolo, olio su tela, cm 35×50, 2021

Senza titolo, olio su tela, cm 40×30, 2020

Senza titolo, olio e smalto su tavola, cm 36×25,5, 2020

Senza titolo, olio sui tela, cm 80×60, 2020

Senza titolo, olio su tela, cm 35×27, 2020

Senza titolo (studio), acrilico su tavola, cm 23,5×20, 2020

Senza titolo (studio), olio su tela, cm 34×25, 2020

Senza titolo (studio), olio su tela montata su tavola, cm 34×24, 2020-21

Senza titolo (studio), acrilico su tavola, cm 23,5×20,1, 2020

Senza titolo, olio su tela, cm 30×40, 2020

Senza titolo, olio su tela, cm 50×40, 2020-21
Considerazioni ad alta voce su alcuni pensieri condivisi con Carmelo Candiano
Il ritorno non è mai la fine del viaggio. Esso vive di un tempo sospeso e indefinito in cui si mettono a bilancio le proprie esperienze, l’esistenza tutta. Ogni ulisside ne è profondamente consapevole. Ho conosciuto Carmelo più di vent’anni fa casualmente in treno, d’estate, durante uno dei miei ritorni sull’isola. A quel tempo ero studente a Bologna ma, ancor prima dell’uomo, mi erano note le opere che costellano tutt’oggi il suo immaginario poetico. Mi accomuna a Carmelo, sebbene figlio di una generazione differente, il senso dato alla condizione del Nostos: in fondo, per entrambi, ritornare a vivere in Sicilia ha voluto dire mettersi davanti alla complessa trama di cui è fatta la propria storia, la propria identità, ri-considerando al contempo le incistate contraddizione di questa terra. In altre parole, è qui, più che in altri luoghi, che la bellezza e la miseria scaturiscono dalla stessa fonte – possiamo dirlo senza imbarazzo -, nel solco di una memoria ancestrale che nasce dalla vibrazione di un simbolico diapason capace di restituire l’anima del siciliano. Anima, va detto chiaramente, dalle molteplici facce: tanto foriera di geniali guizzi del pensiero quanto complice di una passività dello spirito che conduce inevitabilmente alle porte della codardia e della rinuncia. Di questo e d’altro si è parlato con Carmelo in questo ultimo anno, ovvero da quando il mondo è stato travolto dalla pandemia, iscrivendo per legge un distanziamento sociale divenuto modello comportamentale di rispetto e di tutela dell’altro. Pertanto, seppure occasionalmente, ho frequentato il suo studio nelle ore di pausa che hanno intervallato molte delle mie lezioni a scuola, provvisto com’ero di tele, pennelli e colori. Non sono mancate le riflessioni sull’arte, sul senso del fare e sulla pittura, convinti come siamo che esse siano in grado di salvarci dal buco nero dell’indifferenziato, del tutto uguale, e che a me piace paragonare a un argine posto contro la straripante mediocrità. L’aver preso poi in esame il fenomeno che ci vede ogni giorno archiviare migliaia di immagini, di parole, di emozioni, ci ha dato modo di aprire nuove prospettive a pensieri talvolta caduti nella rete delle abitudini: ritorna, ancora una volta, la memoria, questa mappa misteriosa e sentimentale che ciascuno segretamente custodisce, luogo originario e intima voce della propria esistenza. E’ grazie alla memoria che si affilano i sensi, ancor prima di usare la parola, attraverso la quale riconosciamo noi stessi e il mondo. In Carmelo mi ha sempre affascinato questo suo sottoporsi alle urgenze che animano i gesti e lo sviluppo delle forme, siano esse pittoriche o scultoree, senza le quali ogni opera risulterebbe sterile esercizio della mano. Carmelo, neanche a dirlo, è una delle “voci prime” – per usare un’espressione di Longhi – del noto Gruppo di Scicli, al quale il mio sguardo si lega da anni con affetto e ammirazione.
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Ho sempre approntato gli spazi del fare in contesti urbani, avvalendomi esclusivamente di luci artificiali. Per anni cantine e soffitte, garage e piccole stanze sottratte all’ordinario uso domestico sono stati il mio atelier. Lo dico senza alcuna retorica, anche perché ho sempre guardato con sospetto lo sterile compiacimento di chi, da pseudoromantico, crede alle apparenze e a un certo dégoût de vivre come condizione necessaria in cui far accadere l’arte. Eccezioni a parte, s’intende. Voglio dire, evidenziando forse un dato conclamato, che la naturadei luoghi influenza inevitabilmente la luce e le forme di ciò che si va facendo. D’altronde, faccio molta fatica ad immaginare l’origine della straordinaria opera di Giorgio Morandi a New York, magari al venticinquesimo piano di uno degli innumerevoli grattacieli della Upper East Side. Ma, probabilmente, mi sbaglio. Così quanto ha scolpito e dipinto Carmelo negli ultimi quarant’anni in Sicilia è certamente il risultato di un legame stretto e di un rapporto – non sembri esagerato – simbiotico con il territorio nel quale vive. Nella quiete della campagna di Scicli è ubicato il suo studio; più in là, a una manciata di chilometri, si arriva al mare. Lo stesso mare dipinto dall’inarrivabile Piero Guccione. Coccolato per la prima volta dalla bellezza del posto, dalle cromie quasi iridescenti del cielo, dei fiori e delle piante, e dalla pluralità di forme di cui egli quotidianamente si accompagna – per chi si fosse trovato a fargli visita, sa cosa intendo -, è nata una serie di dipinti che vogliono essere un omaggio alla figura dell’amico artista e del suo atelier. Non so ancora se i frutti di questa nuova esperienza siano riusciti ad alleggerire alcuni degli umori che caratterizzano la mia pittura, la quale, negando buona parte dello spettro cromatico, si affida a tonalità brumose e malinconiche che talvolta scialbano per intero la visione. Con queste premesse abbiamo dato origine alla mostra I fiori di Bommacchia, allestita nella sede del Circolo culturale Vitaliano Brancati, di cui Carmelo è presidente: una doppia personale introdotta dalla presenza dei ritratti che ciascuno ha dedicato all’altro, per uno scambio luminoso che si incarica di raccontare un frammento prezioso della nostra amicizia e, non ultima, della sincera stima che ci piace pensare come un antidoto alla brutalità di ogni distanza.
Giovanni Blanco