La musa plurale
2016 Agrigento Spazio espositivo francesco siracusa

Senza titolo, acrilico su cartone, cm 20×25 (ciascuna), 2015-2016
La musa plurale | Giovanni Blanco
Intervista:
Francesco Siracusa: Rispetto alle tue ultime mostre, l’accostamento alla pittura sembra più preponderante. E’ un volere ritornare sui tuoi passi?
Giovanni Blanco: Nella traduzione dei pensieri e nell’enunciare i discorsi attorno all’immagine, la pittura mi si mostra ancora come una possibilità vitale, necessaria, al percorso e al divenire intimo delle mie visioni. Non c’è dunque un “ritorno” ad essa, ma solo l’articolazione del suo linguaggio per via di uno sviluppo virale e rizomatico che abbacina il fare stesso, fuori da ogni formalizzazione stilistica. Fare pittura per me è sempre un fatto di riconoscimento e riconciliazione sensibile col mondo, che pertiene ad una prassi squisitamente culturale, capace di allineare gesti e segni talvolta incongruenti, eppure sorretti da un’unica impalcatura espressiva.
F.S.: In queste dodici opere hai voluto fissare un formato unico, ma le immagini hanno riferimenti disomogenei, o è solo una sensazione apparente?
G.B.: Da qualche anno a questa parte nutro un forte interesse per quelle tensioni, potremmo chiamarle “poetiche”, che spingono l’artista -in qualsiasi ambito egli operi- a fare i conti con le relazioni interne al flusso della sua natura. Si tratta di sabotare la “tirannia” del punto di vista privilegiato, anche il proprio, favorendo l’imprevisto, e tuttavia plasmando quelle necessità stabilite da uno sguardo consapevole, che certamente fa i conti con la storia di tutte le immagini create dall’uomo, al fine di attivare adeguati dispositivi espressivi. A mio avviso, ogni forma deve spingersi verso altre forme, per cortocircuitare con gli strumenti di conoscenza di cui si è in possesso: l’obiettivo è lo sconfinamento. In questo sta la scelta della diversità delle immagini presentate ad Agrigento, con l’intento di formare un teatro dissonante, paradossale, compreso e compresso dentro la stessa unità spaziale.
F.S.: Memoria – modello dal vero – scrittura – fotografia, da dove provengono le immagini delle tue opere in mostra? Potresti spiegare il percorso che l’immagine compie per diventare opera finita?
G.B.: Rispondere in maniera soddisfacente a questa domanda, presupporrebbe scrivere un saggio critico. Posso dirti che ogni mio progetto espositivo è sempre generato da un’esperienza diretta e mai differita con la realtà: ciò assume significato attraverso gli eventi, le emozioni, le casualità, la storia, che mi aiutano a dare forma ad un canovaccio tematico. Per fare ciò, dapprima ho bisogno di scrivere, di mettere nero su bianco ciò a cui mi riferisco, quasi a voler dare preventivamente all’immagine una tensione e uno stimolo che hanno il compito di erotizzare i contenuti. Scrivere, pertanto, è il primo processo di chiarificazione del mio agire. Tutto il resto arriva dopo. Per quel che riguarda invece gli strumenti di “mediazione” per il mio lavoro, siano essi la memoria, la fotografia ecc, non seguo una metodologia specifica e programmatica, perché questa si modifica di volta in volta in base al tipo di progetto ideato: vivo il “cantiere” della pittura come un mezzo e mai come un fine, così tutto può contribuire a fare l’opera. Tra le tante possibilità, la fotografia è sicuramente il medium al quale faccio più affidamento, anche se mi è capitato in certi casi di presentarla in tutta la sua autonomia. Considero le possibilità del mezzo fotografico come un referente necessario per accentuare le relazioni con la realtà ma, come dicevo prima, non è l’unico. Talvolta è un passaggio d’obbligo, uno scandaglio vitale al fluire interno del mio sentire. Mediante la fotografia intravedo il luogo in cui il mio fare si colloca, stando attento a non farlo diventare una gabbia. Quanto detto vale anche per i modelli dal vero, tenendo bene a mente che la questione in gioco è di natura più complessa. Che ci si trovi davanti ad un paesaggio, a degli oggetti, o a un volto, per me quel che conta è solo l’atteggiamento e la posizione nei quali opera l’artista, per stabilire quel legame di originarietà con i propri sensi, al fine di mettere in ordine i pensieri, che precedono l’epifania dell’opera. Passando poi al rapporto arte-fotografia, basterebbe citare la “crisi” (benedizione?) che a metà dell’Ottocento i pittori ebbero con la foto: avvenne un terremoto linguistico, che da allora ci ha permesso un dialogo inedito col reale, con la vita, talvolta spietato e stringente, capace di articolare ed ampliare nuove teorie sulla rappresentazione. Sappiamo come si svolgerà la storia, con quel rapporto di complicità del fare pittorico e del dire fotografico che sottrarrà l’artista dalla dipendenza della mimesi.
F.S.: Sono del parere che sia soprattutto il territorio a formare l’uomo. Tu che ormai vivi lontano dalla terra che ti ha visto nascere, che rapporto hai con questa? Quanto ti ha contaminato o stimolato?
G.B.: Penso che la formazione e la sottolineatura delle proprie specificità interiori e delle proprie inclinazioni espressive siano sicuramente da ascrivere al territorio, che origina per ciascuno una matrice linguistica, culturale, per opera di virtù e di impedimenti che tracciano sulla nostra psiche un’idea di mondo. Naturalmente tutto questo è sempre soggetto alle variabili infinite apportate dal tempo, a cui non si può certamente far ricorso. C’è però un momento cruciale nella vita di ciascuno, in cui una voce interna, sorretta da una necessità bruciante e partigiana, spinge a ridefinire il perimetro della propria esistenza: in quel momento, se sei nato in una terra come la Sicilia (lo dico fuori da ogni retorica), si posiziona nella tua vita l’unica forma possibile di superamento del limite, che si realizza inevitabilmente con la “fuga”. Parlando di fuga, ti confermo subito il mio sempiterno conflitto con la Sicilia, ed è questa la prima traccia con la quale dialogo sensibilmente, e che mi permette di generare storie e proiezioni che, seppure sotterranee, irrorano di domande il mio fare artistico.
F.S.: Cosa insegui e cosa vorresti lasciare lungo i tuoi passi come esempio per altri della tua ricerca?
G.B.: Quindici anni fa, durante i miei anni di formazione all’Accademia di belle arti a Bologna, fui molto impressionato dalla lettura di un articolo di Testori (non ricordo più le fonti), nel quale il grande intellettuale affermava -vado a memoria- che l’esperienza che si fa con un’opera d’arte, un dipinto, una scultura ecc, fosse da intendere principalmente come conoscenza di sé, sprofondamento nelle proprie inquietudini e riconoscimento delle proprie ossessioni. Accolsi quelle parole come un dono, non tanto dissimile dall’ardore e dal tremore che si provano davanti al sentimento dell’amore. Inseguo, dunque, quel fuoco che mi aiuta a scandagliare la mia intimità, le mie ossessioni, i pensieri più ascosi che resistono ad ogni tipo di sollecitazione superficiale, per rendere carne e grumi il mio tracciato esperienziale. Quanto al lascito della mia ricerca sugli altri, trovo la questione alquanto imbarazzante, tanto da non trovare risposta…
F.S.: Le opere in mostra sono di facile lettura o è un’apparenza? Vuoi ribadire i significati che si celano?
G.B.: Nella concretezza dell’agire dell’artista in rapporto al visibile si collocano, per dirla con De Chirico, il sentimento di disponibilità e il coraggio dell’argonauta, affinché si scovi il demone celato dietro le cose. Tutto ciò è chiaramente un presupposto per togliere la corteccia dura all’inossidabile predominio delle apparenze, causa dell’anestetizzazione dei sensi. Pertanto, se per facile lettura ti riferisci alla riconoscibilità epidermica dei soggetti rappresentati, beh, questi sono soltanto il lascito, i “frammenti specchianti” di una riflessione che mi accompagna da circa un decennio: cerco ostinatamente di dare linfa ad una visione plurale del mio tradurre-tradire il circostante, accogliendo l’equivoco e la contraddizione come valori necessari per non appiattire l’esperienza.
F.S.: “L’arte è un incidente dal quale non si esce mai illesi”, ti identifichi con questa frase di Longanesi? Solitamente con quale stato d’animo (mi vengono in mente la gioia e la dannazione) crei arte?
G.B.: Aderisco pienamente a questa frase di Longanesi, che intendo come una via culturale e una apertura etico-estetica dai contorni sfumati. Rifletto sulla capacità di far vibrare il proprio talento, le proprie inclinazioni nell’edificante, quanto fragile, territorio dell’espressione: l’arte è davvero il primo veicolo col quale ci si va a schiantare nel e sul mondo, rinominando ogni volta le cose. In merito allo stato d’animo attinente all’atto creativo, ritengo che vada sgomberato da qualsiasi equivoco il senso che le parole “gioia” e “dannazione” portano con sé, nel cliché stereotipato che vede ancora l’artista essere preda ora di una illuminazione, ora di una bizzarra e disturbata fase ideativa. Io non so esattamente cosa sono e cosa provo quando dipingo; sicuramente mi situo in una dimensione lontana dai due sostantivi da te citati, dove il pensiero, e quindi la conoscenza, si impasta all’istinto, senza che l’uno primeggi sull’altro.